A cura di Gianni Della Cioppa

C’è una frase di Pierpaolo Pasolini che non invecchia mai: “Gli italiani perdonano tutto tranne il successo”. Lo so non è la prima volta che la tiro fuori e – ve lo dico per evitare discorsi futuri – non sarà l’ultima. Se andiamo più a fondo, in realtà gli italiani il successo lo apprezzano, all’inizio, poi, al primo intoppo o se dura a lungo, iniziano i se e i ma. Ne sanno qualcosa Marco Pantani, Federica Pellegrini, Francesco Totti, tanto per fare qualche nome di prima fascia. Se poi l’argomento è la musica, mondo che prolifera di esperti, tecnici e consumati giudici, la faccenda si fa ancora più seria e complessa. C’è sempre un motivo per condannare chi arriva al grande pubblico, c’è sempre una sentenza da emettere se l’artista non è di nostro gradimento, ma è famoso. Lo scacchiere delle spiegazioni è ampio e volubile: non sa suonare, non sa cantare, canta strano, canta uguale a mille altri, è musica semplice, è musica troppo complessa, è musica tutta uguale, è musica per la massa quindi senza cuore (cioè?), i testi sono deboli (Il 98% dei testi rock sono ridicoli, ma vabbè…), non ha fatto la gavetta, ha fatto una finta gavetta, ha fatto troppa gavetta, è un raccomandato e bla bla bla… Il resto lo aggiunga chi ne sente il bisogno, sono certo che la fantasia non manca.

Per non dire dei fan che si sentono traditi, con i loro “Ma una volta…”, oddio mi mettono una tristezza, come se tutto dovesse restare uguale per sempre, il diritto di cambiare viene bandito. Mutare, cambiare, è invece il sale di chi crea, magari anche in peggio per il nostro gusto, ma solo le scosse generano arte, la staticità è povertà emotiva e non può portare nulla. Io, dopo cinquanta anni di ascolti, di cui almeno quaranta facendomi delle domande, sono arrivato alla pace dei sensi, non mi turba più nulla, ho compreso che le dinamiche del mercato non seguono i miei desideri, ma soprattutto ho inteso che il gusto personale è una cazzata, anzi una cagata pazzesca, per dirla alla Fantozzi.

Valutare un artista, una band, un cantante, un compositore sulla base del gusto personale, non solo non ha senso, ma è un errore gigantesco. Però una cosa l’ho imparata: se qualcuno arriva in vetta e ci resta dieci, venti, trenta anni, non è fortuna, non può essere un caso, non è ruffianeria, vuol dire solo una cosa: il talento ce l’hai e lo sai usare, ed hai imparato a gestire tutto quello che il successo comporta, fama, stress, depressione, invidia e rotture di coglioni varie e – se parliamo dei giorni nostri – social compresi, che sono una sorta di inferno in terra, visto il linguaggio medio che circola nei commenti, roba che al confronto un ergastolano pluriomicida, sembra un’educanda al primo giorno di collegio. Ecco perché mi mette tristezza vedere il veleno che tanti sputano addosso a Luciano Ligabue, che poi lo sappiamo, è quasi solo invidia. Scrive canzoni semplici? Usa pochi accordi? Ha una voce lineare? Bene, il 90% del rock non ha bisogno di altro, anzi si, di una cosa: di una linea vocale bella, di una melodia del cantato che resti in testa e di una band che spinge sull’acceleratore o frena di poesia alla bisogna. E così che nascono e restano le canzoni. E Ligabue, che diomifulmini, come si leggeva nei fumetti di una volta, con tre accordi, alcune volte due, tira fuori grandi brani con dei cantati fantastici e, la cosa incredibile, è che se li interpretasse uno tecnicamente più bravo di lui, uno con un’estensione più ampia e tecnica, non renderebbero allo stesso modo. Questo è talento, conoscere i propri limiti e sfruttarli. Le canzoni, nient’altro che le canzoni.

Ma voi che ne sapete di restare a galla trenta anni, mentre tutti intorno non vogliono altro che cadi da quella torre di avorio che si chiama successo? Ligabue ha raccontato i suoi coetanei (e, se posso dirlo, anche me, tanto che alcune volte penso “Ma come fa a conoscermi?”), come nessuno altro. La speranza della gioventù, lo smarrimento della maturità e capire che “Non è tempo per noi”, i sogni di rock’n’roll, i dubbi grandi da risolvere, “Hai un momento Dio?”, la grandezza dell’amore, con la donna che è Dea e martire, il dolore dell’amore, quella meravigliosa intrusione nella coppia che si chiamano figli, la separazione, la politica che si sgretola, un’Italia “Tutta questa bellezza senza navigatore” che affonda perché, “Zanzare e vampiri che la succhiano lì, se lo pompano in pancia un bel sangue così”, la perdita degli ideali perché “Tutti vogliono viaggiare in prima”, sempre di corsa, con la consapevolezza che “Il meglio deve ancora venire” e che infondo siamo felici perché “È venerdì, non mi rompete i coglioni” e poi accettare che forse doveva andare proprio così e quindi “Non cambierei questa vita con nessun’altra”, per cantare la vita con un linguaggio onesto, senza voli pindarici, come si fa tra amici, con il giusto pudore, dove ci abbraccia e poi c’è un momento di imbarazzo che finisce con una mezza risata. Ligabue è arrivato tardi al successo, ha fatto una gavetta lunga, lunghissima, a quasi trenta anni si è trovato, da marito e padre, a decidere se lasciare un lavoro sicuro e gettarsi nell’avventura del professionismo musicale. Ha fatto scelte che altri non hanno avuto il coraggio di fare.

Nessuno ti regala niente, devi rischiare, deve crederci. Non è sempre colpa degli altri se il nostro talento non viene compreso. Quanti l’avrebbero fatto? Tu e tu e tu, che leggi l’avresti fatto? Come tutti il Liga, come lo chiamano i suoi fan, ha fatto errori, pezzi brutti, concerti zoppicanti, scelte discutibili, si è buttato in tanti progetti, forse troppi, ma c’era il suo nome davanti, quindi non si mai nascosto.

Poi alla fine, pensatela come volete, è il pubblico che decide. E milioni di persone le puoi fregare una volta, forse due, dopo se non c’è sostanza ti manda affanculo e ti dimentica. Ligabue può non piacere, e su questo non si discute, e nessuno è qui a volervi convincere del contrario, ma giudicare solo sul gusto personale è un limite che non vi potete permettere, se pensate di essere esperti di musica e quindi considerate di essere in grado di rilasciare giudizi. Non ve lo permetto, mi dispiace, sono intransigente su questo, che si tratti di Ligabue, Metallica, Madonna, Ivano Fossati, Bon Jovi, Michael Jackson, Bruce Springsteen, Lady Gaga o chi volete voi. Lo so che per chi vive di tecnica, di acrobazie musicali, di leggende del rock/jazz/pop/etc, può sembrare strano, ma c’è gente là fuori che si è salvato la pelle ascoltando i testi di alcune canzoni di tre accordi, forse due, che ha trovato la forza di andare avanti, di urlare il veleno contro il cielo, di capire che l’amore conta, che certe notti o sei sveglio o non lo sarai mai. E ripeto, non conta il nome dell’artista, conta la canzone, quella non ti tradisce mai e ognuno ha il diritto di scegliere la propria canzone, senza per forza parlare di pentatoniche o accordi “spaccadita”. Bene, se siete arrivati fino qui, almeno potete insultarmi. Ma nessun problema perché…

C’è sempre una canzone
Per caso o per fortuna
C’è ancora una canzone
Caduta dalla luna
C’è sempre una canzone
Che non fa dormire
C’è ancora una canzone
Ancora da sentire

Gianni Della Cioppa

Un pensiero riguardo “LIGABUE: tra palco e realtà

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