Nun t’affaccia’!
di Arsenio D’Amato
[o Sceno della Banda di Pignataro]

Le persone normali non fanno gli scrittori.
Jonathan Ames

È mezanotte, e cu ‘sta bella luna
I’ canto ‘na canzona pe’ ‘sta via;
Nisciuno sape ‘a ‘ntenziona mia,
Cunosco i’ sulo chi s’adda affaccià.
Nun t’affaccià, si sient’ ‘a vocia mia,
Nun t’affaccià, si sient’ ‘a serenata:
I’ nun canto pe’ tte, canto pe’ ‘n’ata…
E nun s’affaccia, si t’affacce tu!¹

Adrian Crowley ha un buco al culo: “Non lo sapevo”. L’OMS: “Caso isolato”. Ma il Cremlino smentisce. A Shut-In’s Lament me la sento lo stesso. Ho bevuto: proverò a scrivere da ubriaco e a correggere, domani, da sobrio. Mal di testa e voglia permettendo. Dice che è mancata la Edith Piaf albanese: Nexhmije Pagarusha. L’usignolo del Kosovo. Negli anni Sessanta cantava una canzone che narrava di una donna che annegava nel raki e nel vino per la disperazione di aver perso l’uomo della sua vita. “Sono ubriaca”, cantava. Una potenza, una libertà davvero eccezionale. Sono brillo frattanto e, al posto di cantare in albanese, scrivo. In italiano. Come Madame, “ieri sera, da ubriaco ho urlato forte il tuo nome”. Ho provato pure ad ascoltare, ma Dio mi odia. Devo dormire. Mi manca il polso da intellettuale. Tengo solo l’olio di gomito del de-scrittore e lo uso per smontare e rimontare, all’infinito, queste cazzo di parole. La scrittura è effettivamente un’arte, ma resta un linguaggio e solo chi lo sa padroneggiare bene riesce a fare cose buone. Con le stesse parole si può comporre una bestemmia o un’ode al Signore. Per molti comporre una frase, utilizzando le parole che il correttore automatico suggerisce, purtroppo, è come scattare una foto col cellulare. Oggi scattano tutti, ma pochi fotografano davvero. La frase è in italiano ma può non dire niente. Così è per la fotografia: sembra un’istantanea, ma spesso non lo è. Non perché esiste la Biro si diventa tutti scrittori. Penso troppo, forse, e vivo troppo poco. Cosa che mi fa perdere le opportunità o perdere metà della vita che desidero. Nessuno mi ha mai visto, nessuno conosce il mio volto eppure sono considerato tra i migliori del nuovo corso. Almeno nella confraternita che ospita le mie stupide fatiche letterarie. E meno male. Dice che sono magnetico nella scrittura. Chissà. Fossi un pittore sarei principalmente un artista figurativo. Uno che ama raccontare una storia. Le mie figure si troverebbero al bar, in discoteca o in certi curiosi club di jazz, oltre che in ambienti intimi. La mia volontà sarebbe di evidenziare le relazioni di colore e luce e guidare – tramite la consistenza della pennellata – lo sguardo dello spettatore attraverso la mia follia. Ah! Dimenticavo. Mi firmerei Assan. Assan Michel. Che mi piace il fatto che lo pseudonimo eteronimo possa essere un soggetto alieno e che un colpo di accetta sulla coda possa fare la differenza emotiva di uno stortonome. Questo mi dà la possibilità di lavorare su un soggetto e imparare ancora qualcosa di nuovo in ogni gesto, passo o colpo di tosse. Amo incorporare il mio amore per il ricercato, l’arcaico e l’avventura. Intanto: “Je mo’ nun canto pe’ tté, canto pe’ n’ata /ca nun s’affaccia si t’affacce tu”. Ascolto in loop una delle canzoni più belle che abbia mai sentito. Dove sentire non sta per udire, ma proprio per provare/avvertire/patire… E non ha bisogno di descrizioni. Dalla pennetta prendo la versione tratta da ParcoSofia, un disco de La Maschera. Un bellissimo riadattamento di un’antica canzone napoletana. La sola prova dell’esistenza del diavolo, è l’intimo desiderio di vederlo all’opera. Ed è diabolico ascoltare la stessa canzone in millemila versioni. Senza pietà. Che l’anticristo può nascere dalla stessa pietà, dall’eccessivo amor di Dio o dalla verità come l’eretico nasce dal santo e l’indemoniato dal veggente. Cosa vuol dire? Che da sobrio cancellerò tutto. Un cielo nero, pieno di nuvole, carico di tristezza e nostalgia, plumbeo, cupo, persino minaccioso, non può schiarire senza una tempesta. Allora piango lacrime come di pioggia pompando la versione delle Assurd. Fisarmonica, contrabbasso e voce. Col magone. La vita spesso si presenta in queste sfumature, ma la speranza di poter incontrare un suono così mi aiuta a ripararmi dallo sconforto e ritrovare motivi per arridere.

Le Assurd sono un gruppo di divulgazione di canti del Meridione d’Italia. Nate dall’incontro di Cristina Vetrone con Lorella Monti, Enza Prestia, from Argentina e, in seguito, con Enza Pagliara. Vocalità profonde, storie da narrare e melodie note e allo stesso tempo in costante movimento. Nell’inconfutabile possibilità della coesistenza e convivenza, comprensione e accettazione. Quasi ad indicare che tutto quello che succede è pioggia che non potrà mai spegnere il sole. La consapevolezza, quella sicurezza e tranquillità interiore, di poter passare attraverso la tempesta perché susseguita dalla serenità della luce. Tutto questo respira tra i versi e le rime incontrando a tratti singhiozzi e sospiri. È il turno dell’Ars Nova Napoli e della Bagarija Orkestar. Musica da congedo e fine corsa, come dire sonata da rientro solitario e malinconico. So benissimo, chiudendo gli occhi, che sto assistendo alla fine di un universo e sono padrone solo di quello che ho perso. Anche inforcando occhiali con le ali non posso prescindere dalle mie radici e dalle intrinseche zavorre emotive. Una volta, prima di pensare di andare a prendere e invitare a ballare la ragazza che mi aveva trafitto il cuore, avevo paura di sbagliare. Ancora. Andai, allora, dal deejay, che apriva le danze con Haddaway al ritmo di What is love, e gli chiesi: “Come faccio?”. Lui, per un po’, continuò a mettere dischi, poi – senza sapere di cosa stessi parlando – disse: “Non essere meraviglioso”. Non lo fui, ma restai meravigliato nel vederla poi arrivare. Con un altro. Proprio su Living on my own del compianto e mai troppo rimpianto Freddie Mercury. Delle feste, consumate nelle autorimesse, oltre lo spettacolo della gente, mi impressionava, sempre, il finale, quando la musica svaniva e le luci si accendevano chiare mostrando, a terra, la linea di galleggiamento di un mare di rifiuti. Carte, lattine, bicchieri, bottiglie e mozziconi di sigarette. Di quelle feste, appena terminate, nel cuore, dentro la testa, restava solo tanta malinconia. La stessa che provo, tuttora, quando finisce qualcosa; poiché, chiusa la porta, c’è sempre qualcuno che resta da solo. Ogni volta, alla fine della festa, c’è chi continua lieto in qualche altro posto, forsanche per strada, in una macchina trasformata in alcova, in una chat o nei suoi sogni. Che, da sempre, qualcuno, nelle feste, non vede l’ora di “chiudersi la porta alle spalle” e qualcun altro si ritrova a contemplare le cartacce appallottolate e sporche, nella malinconia dei bicchieri mezzi vuoti, dei piatti appena assaggiati e delle bottiglie vuote. Una volta, però, nel clou di una festa che moriva, calato il sipario sullo spettacolo dei partecipanti, alle due della notte, una ragazza che conoscevo appena mi chiese di portarla via. Sinceramente ne fui infastidito. Che avevo in mente di passare per l’incrocio dove la femmina del mio cuore spezzato si appartava con lo stallone del momento. Quasi che vedere dove si consumassero certe bollenti effusioni mi mettesse il cuore in pace. Il deejay, smontando vinili, mixer e cianfrusaglie, mi sorrise. Abbassai gli occhi. Una volta usciti ed entrati in macchina la ragazza confessò che aveva fatto apposta a restare fino alla fine. E non capiva perché mi ostinavo ad essere l’ultimo della fila. Sorrisi amaro. Lo avesse detto all’inizio saremmo stati i primi a sgattaiolare fuori. “Portami dove vuoi! – disse – All’alba, però, devo essere a casa”. Mi diressi all’incrocio che sapevo. Per prendere due piccioni con una fava. Guardare e farmi vedere, ma non c’era nessuno da spiare e allora mi fermai. Nei pressi dell’albero che aveva visto tante generazioni della mia famiglia passare la vita dei giorni di fatica, resistendo alle stagioni e alle circostanze, resistendo alle prove, trovando nuove speranze e opportunità, finché il loro scopo, in questo mondo, non fu completo e una nuova generazione arrivò a chiudere il cerchio senza ripetere il ciclo. Che in molti, è risaputo, adorano gli dei, idolatrano i morti e pregano i santi. Venerando, sommessamente, i caldi corpi degli amanti. Misi su un po’ di musica misto/lento/anacronistica, eroicamente alla Sceno della Banda di Pignataro, da quel momento detto pure Assan Michel, e mi chiusi ogni porta alle spalle. Dal Bolero di Maurice Ravel a Love to love you baby di Donna Summer. L’uccello cantava nella luce nascente. Il sesso viene meglio con la colonna sonora giusta in sottofondo. Quell’uccello non era venuto nello stesso punto, dal nostro ponte alla rotatoria, pensai mentre bevevo il caffè di un Pocket Coffee, pisciavo per aria e guardavo l’alba nei campi d’intorno. La brezza era leggera e il mio basso ventre pure. Avevo scaricato orina e incertezze sull’asfalto annoso della stradina interpoderale che aveva fatto da pista di atterraggio al mio ultimo amplesso a sfregio. Dopo l’affronto dell’ingiuria, prima di voltar la faccia, sputai tre volte per terra, mormorando lo scongiuro assimilato da zio Antonio: “Otto e novi a l’ossa tòje”.1 La musica misto/lento/anacronistica della musicassetta gloriosamente procedeva. “One love, one blood / One life…”. Il tema del viaggio e della ricerca: ho salito le montagne più alte, diceva forse una canzone, ma non avevo ancora trovato quello che stavo cercando. Che in tante canzoni non era solo l’amore tra un uomo e una donna ma l’Amore con la A maiuscola, che trascendeva l’esperienza umana. Bono Vox parlava dell’amore riferendosi esplicitamente a Dio, o a Gesù. E questo traspariva in One, degli U2. Una canzone che iniziava parlando del rapporto difficile tra due persone, del loro bisogno di ripartire condividendo quello che avevano: che c’era un solo amore, una sola vita. Poi però lo sguardo si allargava al mondo: una sola vita, l’uno con l’altro, sorelle e fratelli. La canzone diceva che anche se non eravamo uguali, partecipavamo tutti alla stessa vita e dovevamo sostenerci l’un l’altro. Il messaggio, da personale, diventava universale. Ma questa, veramente, è un’altra storia. E non posso essere sempre logorroico. Che notte, quella notte, chiacchiere a parte e in ogni caso. Anche se a me i festini nei sotterranei o nei garage mi piacevano e non mi piacevano, voglio dire: mi piacevano perché erano fascinosi ma non mi piacevano perché fra loro e me c’era come un muro altissimo di pellicola trasparente da cucina, che non mi lasciava partecipare alle cose più belle. Ho sempre pensato, quando ero alle feste, che avrei ben fatto a non aspettare la fine. Non sempre, tuttavia, ci sono riuscito, perché, in certe occasioni, la festa che muore e spalanca le gambe vale più dell’intero spettacolo della gente. Molti mi dicono che sono un artista, ma non ci tengo a passare per artista, sono solo un de-scrittore artigiano. E non l’avevo chiesto io quell’amplesso. Che neppure me l’ero cercato. Lì ci sarei andato, forse e comunque, ma per fare il guardone. Perciò Dio ti prego. Ti chiedo di perdonarmi. Ti chiedo di mostrarmi un’altra strada perché mi caccio sempre nei guai. Sono disperato. L’hai creato tu questo mondo pazzo e forse puoi darmi un suggerimento su cosa hai in mente, perché io non ne ho una cazzo di idea. Ma forse tu non c’entri nulla, e non esisti nemmeno, chi lo sa! C’è un’enorme distanza tra te e me, uno spazio, un vuoto. C’è un grande vuoto. Ti chiedo di riempire quel vuoto. Di dieci anni: da quando la vita che conoscevo si è sbrogliata e si è intrecciata in un nuovo arazzo di realtà. Ti chiedo di venire qui a darmi una spiegazione, perché questo tuo mondo non torna e io l’ho odiata davvero quella femmina che mi ha succhiato l’anima. Io lì ci volevo andare, ma con un’altra che tu sai. Che ci andava e veniva con quello. Per questo, non penso nemmeno di credere in te, cazzo, ma se fossi costretto a esprimermi al tuo cospetto ribadirei che ti odio; veramente. E ti vengo a cercare / anche solo per vederti o parlare / perché ho bisogno della tua presenza / per capire meglio la mia essenza

Io morirò e quella puttana di Madame Bovary vivrà in eterno. – Gustave Flaubert

1Un modo arcaico per contrastare il malocchio e i demoni maligni. Che, spesso, all’atto dello sputare, si aggiungeva l’esclamazione “otto e nove”, reminiscenza della magia dei numeri di origine pitagorica secondo la quale il 9 è il primo quadrato fra tutti i numeri originato dal 3 numero perfetto, mentre l’8 è formato dal cubo del 2 primo numero pari.

In ordine di riproduzione
A Shut-In’s Lament – Adrian Crowley
E Dehur Jam – Nexhmije Pagarusha
Sciccherie – Madame
¹Nun t’affaccià! – Musica: Eduardo Di Capua, Versi: Luigi Fragna. Anno: 1908
Serenata – La Mascheraù
Nun t’affaccià! – Assurd
Serenata – Ars Nova Napoli & Bagarija Orkestar
What is love – Haddaway
Living on my own – Freddie Mercury
Bolero – Maurice Ravel
Love to love you baby – Donna Summer
One – U2
E ti vengo a cercare – Franco Battiato

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