Se ami il punk di qualche decennio fa, anche tu ti sarai trovato a confrontarti sicuramente con gli amanti del bel suono, curato (che piace anche a noi, ovviamente), abbottonato e studiato, ingerito e digerito da una miriade di software e plugins.
Eppure c’è un qualcosa in quei suoni grezzi, sporchi e poco curati; in quelle sessioni registrate male e non così precise, che forse un po’ manca nella ricerca attuale della perfezione sonora.
Oggi si preferisce una batteria midi perfetta ad una reale, con magari qualche colpo non preciso al millesimo, ma decisamente più vera e genuina.

Non sono pochi i grandi dischi delle band più importanti (o conosciute?) della storia che accolgono tra le tracce, dei piccoli errori che fanno respirare l’anima di quei pezzi, dei musicisti che le hanno scritte e suonate nelle peggio condizioni.
Sotto a tutto questo abbigliamento curato, a questa patinatura, non rischia forse di perdersi un po’ l’anima della canzone, quella sbavatura che è parte dell’essere umano, così imperfetto e grandioso (se vuole) allo stesso tempo?
Dove abbiamo lasciato l’attitudine? Quella della semplicità che però tirava delle granate in faccia con quattro (a volte tre) accordi e i testi, magari semplici, che esprimevano nella totalità il pensiero dei giovani che erano come bombe, non addormentati davanti a youtube come noi oggi?
Sto parlando della musica dei periodi delle fanzine e dei volantini fotocopiati per far conoscere le date dei propri concerti. I tempi in cui un giornalista musicale doveva andare ai concerti e magari rischiava pure di farsi picchiare dalla band di turno. I tempi in cui i gruppi erano famiglie più solide di quelle tradizionali, nella loro totale autodistruzione, talvolta.
Le idee (anche quelle pessime) erano potenti ed erano ovunque.
L’aria era satura di creatività.
Ad oggi esiste una miriade di gruppi storicamente sottovalutati, che hanno realmente innovato con le loro chitarre da quattro soldi, nelle loro cantine, senza mezzo tutorial su youtube.
Gente che magari non sapeva leggere mezza nota, ma sapeva sparartela in faccia con tutto il coraggio che solo i peggio palchi sanno dare.
Quando ascoltare musica era una scelta di vita e non esistevano playlist.
Quando il modo in cui indossavi un tipo di giacca, metteva subito le cose in chiaro.
Quando volevi che si sapesse che gruppi ascoltavi.
Quando o eri metallaro o eri punk, niente vie di mezzo.
Quando la musica era un modo di vivere la vita.
“Ci hanno uccisi al suono della nostra musica” per dirla coi Peggio Punx.

Cos’è questa eterna ricerca della perfezione che rende tutto così uguale e standardizzato?
C’è ancora posto per esprimersi?
Per essere sinceri?
Per non essere perfetti?
Al tempo lo spazio ce lo si creava a suon di spintoni.
C’era un Credo dietro a quei quattro individui strambi che si esibivano; un Credo che andava oltre la fama, il successo e la targettizzazione del pubblico.
Prima del prodotto finale, c’era l’essenza della condivisione di gusti e idee.
Prima la musica, poi il marketing (le rare volte in cui poteva esserci).
Oggi la musica è diventata un bene di consumo.
Un bene che si consuma nel tempo di una sveltina (forse anche meno – ché rischia di annoiare). Tutto studiato a tavolino, perché la soglia dell’attenzione è scesa al di sotto di quella tanto famosa e derisa dei pesci rossi.
Il ritornello deve entrare lì, non prima, non dopo – e non ci sarebbe nulla di sbagliato in questo, se fosse per il puro senso estetico o espressione personale, ma – perché rischi che l’ascoltatore si stufi e “skippi”.
Dal vinile al venale, passami il gioco di parole, nonostante il vinile fosse di per sé la parte commerciabile della musica.
Ma le modalità di fruizione della stessa sono cambiate.
E il paradosso è che ad oggi, cercare ad esempio, un vinile di quei meravigliosi anni, con suoni talvolta fastidiosi, costi uno sproposito.
Insomma è un bel casino quello che si è creato nel tempo, attorno alla musica.
Certo, nessuno sputa sulle cose ben fatte, ma a volte un po’ di sporcizia ci riporterebbe coi piedi a terra, ad assaporare un qualcosa che la troppa tecnologia ci sta togliendo.