
Caldo, corpi sudaticci e appiccicosi. La massa di gente è letale, soprattutto col calore di giugno, il periodo più fitto di festival. Ma a noi piace, è così che deve essere. Forse l’unico dei motivi per i quali tollero la presenza e vicinanza di così tante persone, corpi. Ma siamo lì tutti, come una grande famiglia felice, per goderci lo spettacolo della nostra band preferita.
Il palco, silente, è carico di tensione. A riempire l’aria solo il mormorio brulicante di noi fan accaniti e qualche “crack” di bicchieri sotto ai piedi. Ogni tanto un fischio, un applauso e un coro di incitamento, ma il palco tace. Luci fisse puntate sugli strumenti, le rifiniture dei fusti della batteria che emanano luminescenze blu, verdi, viola. Una leggere brezza fa allargare le braccia a molti dei presenti, con facce allietate da questo piccolo accenno di frescura.
Calano le luci, parte l’intro. Un boato di euforia e gioia parte dalla platea (di erba o asfalto che sia), tanto da coprire il volume della canzone d’ingresso della band e “Dai! Ci siamo!”. È questo il momento. Tutto svanisce. Il caldo, le ore sotto al sole, le birre bevute nell’attesa (anzi, fammela finire così non mi cade e ho le mani libere!): pura vida, gente. Pura – vida. Siamo un unico corpo, devoto alla band, nostri fratelli e sorelle, solo che stanno lassù, portavoce dei nostri pensieri, sentimenti e generatori di emozioni, per questo li adoriamo.
Riffettone di chitarra e… “Ciao [nome della città in cui ti trovi]!” e si parte!
Un muro di display s’innalza sopra le nostre teste, tutti, io compreso. Ci sta, dai. Vogliamo far sapere ai nostri follower che ci siamo. Vogliamo condividere anche con la nostra tribù digitale questo momento. Non è vanto, non è ricerca di consensi. Spesso è semplice voglia di condividere, anche per scovare tra i nostri contatti chi ama la nostra stessa band o per ricevere, magari, un “Grandeeee! C’ero anch’io, ero sulla destra del palco. Tu?”.
Dopo trenta secondi col braccio in aria, fermo la registrazione e infilo il telefono in tasca. Piccolo controllo chiavi, telefono, portafoglio: a posto, c’è tutto – e mi immergo nel momento. La fila davanti a me continua, regge di più. Dopo alcuni minuti altri fratelli ripongono il telefono, ma gli schermi che mi mostrano in diretta il concerto a cui sto partecipando sono ancora molti.
Ok raga, siamo alla terza canzone – ma come fate? Non vi si addormentano le mani? – e mi accorgo di quello col telefono con display 24″, più simile a un iPad, una tv “tascabile”(?!) piazzata in orizzontale che non ha mai staccato gli occhi dallo schermo, filtrando il reale attraverso il digitale, pure scocciandosi se gli arriva qualche lieve spintone da chi, magari salta e balla… al concerto. Lui è il tipo che poi caricherà il video integrale su YouTube. Video che non riguarderà. Come io non riguarderò il mio, se non per vedere quanti cuoricini mi hanno messo nelle storie di Instagram e quando lo mostrerò alla mamma, agli amici e ai colleghi.
Questa è la verità: ci perdiamo il momento presente, quello per cui ormai spendiamo tranquillamente e senza troppa paura anche centinaia di euro. Già in certi contesti sei talmente distante che il palco risulta più piccolo dello schermo dello smartphone che hai davanti (non è una scusa per guardarlo da telefono), se in più passi tutto il tempo a fissare lo schermo, ma che ci sei venuto a fare? E qui mi spiace per te e per me quando ci casco, ma soprattutto rovini lo spettacolo anche agli altri, quelli alle tue spalle, che hanno pagato fior fior di quattrini tra biglietto e birre per assistere al concerto della vita, non al tuo futuro video on demand.
Torno a poco fa: ci sta. Siamo nell’era del digitale, della condivisione e della riprova sociale. Ci inciampiamo quasi tutti. Sono davvero pochi gli immuni. A ognuno di noi piace portarsi a casa un ricordo che non riguarderà mai più, un altro file che ci rallenterà le prestazioni del telefono e che sposteremo su un hd esterno per fare un backup, perdendolo ancora più nei meandri della tecnologia. Ma il ricordo vero, così lo perdi. Ti porti a casa un file e zero (o poche) emozioni. I video li faccio pure io, ma con parsimonia. Li faccio per il blog, per il canale YouTube, ma non mi gioco il concerto col telefono in mano, per rispetto di chi mi sta dietro, per rispetto mio e per rispetto della band che, seppur gli si fa pubblicità (e hanno bisogno proprio della nostra!), secondo me gli si rovina un po’ la sorpresa dello show… ma di questo ne parlerò in un altro articolo.
Intanto portatevi a casa un pensiero, un po’ nostalgico, di chi andava ai concerti senza telefono e li viveva fino all’osso.
Quando andiamo ai concerti o in tante altre situazioni, impariamo, sforziamoci, a tenere in tasca questi arnesi che ci mantengono costantemente incollati e reperibili, che non ci fanno più mancare niente e agli altri. Questa iperconnessione perenne ci ammazza il presente, per farla un po’ più zen, anche se il mio mantra è “Te lo buco quel telefono, se non lo levi di mezzo!”
La Scimmia Verde

Un pensiero riguardo “Te lo buco quel telefono!”