Chercheur
di Arsenio D’Amato
[o Sceno della Banda di Pignataro]
[Strofa]
Gli piace così tanto
che a volte ci si incanta
e non ricorda più che strada fa
e non lo vuole ammettere
che prima o poi si perderà
e morirà di fame o nostalgia,
però ci vuole credere
ha i mezzi per resistere
e non gli serve neanche compagnia
e quando ha gli occhi lucidi
si fa fatica a credergli
sa fingere benissimo la sua malinconia.
[Pre-Ritornello]
Capita che gli astri lo favoriscano
e non è infrequente che sorrida un po’…
[Ritornello]
Come quando, di notte, per principiare un discorso o un’entrata ribelle, usa un chilo di frasi di Lorenzo Kruger – nuovo corso, post Nobraino – che gli piace così tanto che a volte ci si incanta e non ricorda più che strada fa e non lo vuole ammettere che prima o poi si perderà e morirà di fame o nostalgia, però ci vuole credere ha i mezzi per resistere e non gli serve neanche compagnia e quando ha gli occhi lucidi si fa fatica a credergli sa fingere benissimo la sua malinconia.

C’era una volta, una sola, e poi basta. Che questa è la storia di una penna che suona e qualche volta graffia oppure stona, che fotografa le note e si nasconde nelle mani di un de-scrittore calvo con la barba canuta. Dura ben 1000 ore. Sta in 200 pagine. Ed è gratis per chi frequenta ibridi suoni. Un progetto incredibile e un po’ folle, tra sacro e profano. 100 racconti progettati da zero, costruiti a mano, ispirati alla radio e alla sua evoluzione, agli speaker e al teatro canzone, in un’opera sonora e artistica che un giorno qualcuno non smetterà di sfogliare. Una specie di original sound track per il resto frastagliato di uno stuolo di depressi. Fatta girare da un umanista tardivo e in fuori gioco. Un semplice neo-povero allo sbando che dice di amare la musica. E amare la musica vuol dire coglierne l’essenza, non restare in superficie. Che i sentimenti hanno una loro forza ed energia e nessuno meglio dei musicisti riesce, dove gli occhi non arrivano, a trasformarli in musica e versi. Che non esiste musica scadente o musica colta. Ci sono differenze di generi e culture. Come per le lingue o le scritture. Se l’ascolto – quindi – è condizionato da questi fattori esterni e il vero problema sta nell’individuare la musica che ci piace in un archivio praticamente infinito, basta armarsi della pazienza di farlo: in questo modo c’è ancora speranza di credere che il repertorio musicale, giunto fino a noi negli ultimi cento anni, non finirà di certo nel dimenticatoio, anzi, potrà soltanto crescere di valore. Ci penso. E rileggo. In sottofondo Gary Moore, con The Prophet. Gary Moore è uno di quei nomi per cui l’appellativo di “leggenda” non è certo sprecato: una discografia sterminata piena di grandi album, che sembrava destinata a non finire mai, salvo poi interrompersi per la prematura morte a cinquantanove anni. Da sbiellato metallaro a raffinato bluesman, una forza e un feeling nella chitarra, doppiato da una voce incredibile. Gli irlandesi dovrebbero essere orgogliosi. Ascoltarlo, nella R4, su una cassetta Bosch TDK al cromo, una delle migliori, che usavi quando volevi fare lo splendido, mentre eseguiva “The Prophet” era un’esperienza shock. Non mi sono mai sentito così emotivamente in debito con un particolare musicista. Un pezzo che ri-torna in cima ai miei pensieri e diventa l’O.S.T. (Original Sound Track) di questo incipit. I miss Gary. Proseguo. In “Shuffle mode”, ossia in riproduzione casuale. Esce Me and That Man – Cross My Heart and Hope to Die. Wow! Me and That Man è un duo che suona una musica al confine tra rock, folk e country. Un side-project creato nel 2016. Letteralmente è come dire “Io e quell’uomo” che, in questo pezzo, vocalizzano di “Attraversare il mio cuore e sperare di morire” … eppure io cambierei il nome in: “Quell’uomo e il suo cappello”. Quando ho sentito questa canzone ho pensato che fosse Nick Cave, ma mi sbagliavo. Ricordava pure Johnny Cash e ho amato subito la sua voce pulita, ma questa era la versione polacca della lingua americana… era uno che stava lottando col suo accento. Lui è Adam Michał Darski ed è veramente polacco. Conosciuto con lo pseudonimo Nergal, è leader del gruppo black/death metal Behemoth, del quale è cantante, tastierista, principale chitarrista e compositore, nonché unico membro rimasto della formazione originale. Nergal ha assoldato per questo progetto il chitarrista inglese John Porter che ha sicuramente influenzato il suono dei Me and The That Man, avendo collaborato in passato con leggende del genere di John Lee Hooker, B.B. King e John Mayall. Insieme suonano certe country-ballad intrise di nostalgia e dal sapore molto sudista che, di conseguenza, sono un omaggio dietro l’altro. Le citazioni salgono di quota perdendo il conto dei nomi: Tom Waits, John Lee Hooker, Willy DeVille, Bruce Springsteen solo per citarne alcuni. A me è piaciuto subito. Al primo ascolto. Altrimenti ascoltare la radio e non imparare mai nulla a che serve? Se le storie e le canzoni che passano sotto il nostro apparato visivo, intento a fare altro mentre la musica splende, e che diciamo di aver amato, non servono a cambiarci o a rinsaldarci nel nostro intimo, a cosa serve sentirle? Se guardi sempre dalla stessa finestra, non saprai mai chi è l’assassino. Se ascolti sempre la stessa musica, diventerai una specie di sordo. Io faccio ricerca dal 1975. E senza Shazam. Che per trovare le canzoni che sentivi intorno a te dovevi fare veramente ricerca ed esplorare la musica. Ascoltare uno speaker col block notes in mano. Che dentro al coraggio di certi anni c’era soltanto tanta ingenuità. Finivano i ‘70 e incominciavano gli ‘80, aprivano le prime radio libere, fin dentro i minuscoli paesi di frontiera, noi ragazzini frequentavamo, il sabato pomeriggio, l’A.C.R. e, all’uscita, ci riunivamo nella villa comunale a scroccare le cento Lire al bar per le canzoni del juke box. Eravamo semplici e adoravamo quei brani che, qualche anno dopo, avremmo definito come canzonette di merda… Avevo una decina d’anni a quel tempo. Avevo registrato alcuni pezzi su una di quelle “cassette” musicali dell’epoca. Consumate, poi, in viaggi infiniti immaginando un futuro perfetto. Perfetto, bensì, era proprio quel tempo… Senza pensieri e senza mete. In cui si viaggiava verso Sud senza essere sudditi e senza essere sudici. Il tempo di How deep is your love. Una canzone dei Bee Gees che, adesso, passa alla radio. Alto volume per orecchie abbassate. Quattro chilometri. Due rotonde, nessuna curva, lo spazio adatto per pensare alla musica fuori dalla quiete dei muri. Strada dritta, andata e ritorno, in mezzo al traffico delle cornacchie che volano basse. Il gusto amaro del caffè infesta la mascherina. Tenuta su nonostante la solitudine. Lo specchietto spia il cielo retrostante, che cambia abito e si spegne. Abbasso il volume di scatto. Giro lo specchietto retrovisore verso i miei occhi. Mi libero dal dispositivo di protezione e dalla cintura. Un ricordo mi entra nelle narici, devo soffiare la vita. Guardandola obliqua. Finestrini abbassati, riscaldamento a palla, estate simulata. Urlo, con forza, un “dove siete?”. Agli anni, agli incontri e ai sogni. Poi torno alla musica, mi rimetto la cintura di sicurezza, rallentando. La radio, ora, passa Umberto Tozzi. Mi guardo allo specchio. Aspetto le parole. “Fammi abbracciare una donna che stira cantando…” paradossalmente una canzone dello stesso anno di quella di prima. Quarantacinque anni sono lunghi e c’era anche qualche profeta che diceva che certi suoni non sarebbero tornati più. “Sarà dura aspettare l’estate, con la frontiera dell’est che balla e fa tremare, ma tenete d’occhio Sceno¹ della Banda di Pignataro. Vi daremo notizie…” M’improvviso conduttore abbassando di tre punti il volume. Tacendo del gasolio che costa più della benzina, tenendo dentro la paura dell’innominabile fine che aleggia sui misteri della fede e delle ovvie ripercussioni economiche. Percependo che il peggio deve ancora venire, ma senza guardare se il bicchiere sia mezzo pieno o mezzo vuoto. Che l’importante è che ci sia ancora un bicchiere da riempire. Sorrido e mi chiedo quante storie possono viaggiare con me per soli quattro chilometri, fra due rotonde e nessuna curva. Per uno che la musica l’ha pesata, che prima dovevi scegliere i suoni che ti potevi portare dietro. Dieci musicassette avevano il loro peso e poi le pile per il walkman. E certe canzoni, quelli della mia generazione, le hanno amate e subite sul campo. Il territorio dove le note si consumano al volante è il posto dove l’istinto ti dice di fermare la macchina e fare marcia indietro. Il posto dove le strade sono deserte e le case lontane, dove attraversando una piantagione di pioppi, sembra sempre l’imbrunire, anche all’alba. Alzo ancora il volume. Non mi duole più l’anima, ma le orecchie protestano, anche se il cuore è confortato. Finalmente l’udito non sente i suoi battiti nel silenzio. Che la musica, dallo spartito all’orecchio, va spartita ed è come un mucchio di vestiti usati, lasciati in terra dopo il mercato: sembra la carcassa di un grosso animale, abbandonata nella savana, ognuno che passa ne strappa un pezzo. E così una cosa finita ritorna alla vita. Che si può costruire qualcosa di bello anche con le pietre trovate sul cammino.
10 marzo 2022
La musica è reale il racconto è solo pura fantasia.
Post scriptum
Per redigere questo racconto giuro che nessun brano è stato maltrattato. La playlist che segue è solo la colonna sonora di certi periodi e di certe parole.
In ordine di riproduzione
Chercheur – Lorenzo Kruger
The Prophet – Gary Moore
Cross My Heart and Hope to Die – Me and That Man
How deep is your love – Bee Gees
Ti amo – Umberto Tozzi
¹Sceno è l’antico diminutivo di Arsenio. Dagli arcaici seguaci dell’egumeno Scenute (Shenute “Figlio di Dio”, in arabo Shenuda), un religioso e scrittore egiziano. Venerato come santo dalla Chiesa ortodossa copta e dai monaci fondatori del paese di Sant’Arsenio. Religiosi che appartenevano alla congregazione di San Scenute da cui “scenuddi” apostrofazione locale data ai santarsenesi.